
Se guardo le foto della mia Ordinazione, non posso che sentire compassione per quel giovane di ventitré anni alto, pallido e magro che, pieno di entusiasmo, non aveva nessuna idea di cosa lo avrebbe atteso.
La sera del 25 settembre 1982 era la mia ora. L’Ordinazione era fissata per le 20,30.
Non fui ordinato nella cattedrale, ma nella parrocchia dove ero nato e cresciuto.
Tutto era stato preparato con cura, in modo solenne, ma non stucchevole, anzi il clima era proprio quello di una festa in famiglia. Una famiglia “allargata” per la verità, perché parteciparono anche persone che in chiesa non mettevano piede da anni, solo perché mi avevano conosciuto fin dall’infanzia.
Il Signore volle che fossi completamente incosciente durante tutta la serata, cioè privo della benché minima preoccupazione; tutto accadde come se fossi spettatore della mia Ordinazione. Sentivo solamente una grande serenità che mi sosteneva dall’interno. Fu davvero un momento di Grazia, unico in tutta la mia vita.
Il problema si presentò il giorno dopo con la prima Messa, e nei giorni seguenti. Le prime Messe, le prime confessioni, il primo incarico, l’incontro con persone nuove, con ambienti nuovi. Il pensiero che mi perseguitava era quello di non essere abbastanza adeguato alla missione che il Signore mi aveva affidato.
Sentivo di essere come quel ragazzo che viene gettato in acqua perché impari a nuotare da solo.
Una sola era la certezza che mi sosteneva, e cioè il mio desiderio di agire nella verità, di essere autentico, sia durante la celebrazione dei sacramenti, sia quando dovevo esaminare le anime per dare loro consigli retti. Volevo essere nella verità agli occhi di Dio e nei confronti delle anime. Questo è sempre stato il mio obiettivo fin dalla sera della mia Ordinazione.
Per essere nella Verità bisogna conoscerla. Qual è la Verità dell’Eucarestia? E come deve celebrarla il Sacerdote per essere autentico? Qual è la verità di una determinata anima? Ciò che appare, ciò che dice di sé, o altro? Quali sono i consigli più adatti ad essa?
Come vi dicevo: ho imparato a nuotare per necessità. Se ho scritto un libro sul discernimento, non è perché ho raggiunto una competenza tale per cui posso insegnare ad altri, ma semplicemente per mettere nero su bianco ciò che avevo acquisito dall’esperienza.
Negli anni ’80, la pastorale tradizionale era già stata mandata al macero, si viveva di esperimenti, e mi pare che anche adesso le cose non siano molto cambiate. Nessuno trasmetteva più nulla alle generazioni successive. La maggior parte dei sacerdoti della mia generazione sono stati formati con una vaga e ideologica conoscenza dei primi due millenni di magistero, e con un’esasperata esaltazione di ciò che la Chiesa aveva assimilato nell’esperienza conciliare. Per la prima volta nella storia, i sacerdoti hanno vissuto il loro ministero in un periodo vuoto di certezze, e pieno di illusorie proiezioni verso un futuro immaginario. Ciò che fa ancora più impressione è la rapidita con cui è avvenuto il cambiamento.
Forse si può fare un paragone con la crisi religiosa del 1500, che ha visto non solo la comparsa di molte sette protestanti, ma anche una diffusa ignoranza della dottrina, accompagnata dalla rivincita della superstizione e della magia. Il confronto però non regge se pensiamo all’estensione capillare della rivoluzione all’interno della Chiesa che si verificò negli anni ’60 del secolo scorso. Anche la rapidità del fenomeno non è paragonabile. La mia formazione, per fare un esempio, era completamente diversa da quella che ricevettero i seminaristi soltanto tre anni prima. Ci fu un vero e proprio iato generazionale e culturale, una rivoluzione insomma, o meglio qualcosa che è più simile ad un colpo di stato. Non può trattarsi di un fenomeno spontaneo, perciò io concordo con quelli che propendono per un assalto a sorpresa, organizzato fin nei minimi dettagli. La crisi del 1500, invece, fu il risultato di un lungo processo di decadenza che era iniziato almeno un secolo prima.
Tralasciando tutte queste disquisizioni, la sostanza è che eravamo sempre e solo in due: io e la mia coscienza. Chiedere consigli ai superiori era come fare il ripasso del programma diocesano annuale. Grazie tante, lo avevo già letto.
La Chiesa stava strutturandosi come una moderna e “democratica” istituzione civile. Si stava dotando di una struttura piramidale e capillare, non più basata sulla gerarchia tradizionale (papa, vescovi, parroci, per intenderci, con i loro carismi derivanti da Dio), la quale stava assumendo sempre più un ruolo subalterno e funzionale, ma su organismi consultivi nuovi (Conferenze, Sinodi, Consigli). Questi si esprimevano con programmi annuali o pluriannuali che dovevano, come oro colato, essere attuati necessariamente in tutti i gradini della piramide, dalle diocesi fino ai gruppi parrocchiali. All’epoca esisteva ancora l’Unione Sovietica, e vi garantisco che l’associazione di idee con i famosi piani quinquennali di sovietica memoria veniva spontanea.
Da parte mia pregavo e chiedevo con insistenza il dono del discernimento per poter svolgere l’altissimo compito che avevo ricevuto nel migliore dei modi.
Mi ponevo domande e cercavo le risposte. Imparavo molto dai fallimenti miei e degli altri. Cercavo di recuperare il sapere che mi era stato negato e di considerare altri punti di vista rispetto a quelli imposti da una certa propaganda ideologica.
Così mi sono abituato a non dare mai nulla per scontato, a valutare ogni cosa e a non lasciarmi condizionare dai pareri altrui.