Un articolo su Lina (Camilla) Marchi (1908-1987) lo voglio proprio scrivere. Meriterebbe molto di più per tutto il bene che ha fatto nel silenzio e nell’umiltà.
Io la conobbi nella seconda metà degli anni ’60, come fanciullo di Azione Cattolica e frequentatore dell’oratorio di cui lei era l’animatrice (cfr.: “Le domeniche all’oratorio”).
Lina era l'immagine della modestia: vestiva con estrema semplicità e decoro, senza alcuna ricercatezza. Si può dire che l’unica ricercatezza era quella di non averne alcuna. Questo, in una donna, non può essere frutto del caso, ma di una disciplina alla quale da anni si era sottoposta per amore di Gesù.
Abitava in una palazzina di fine ‘800, vicino alla ferrovia, insieme alla madre vedova e una sorella, come lei nubile. Da lì si muoveva con la sua vecchia bicicletta, con pedalate lente e affannose. Aveva lavorato come segretaria in una fabbrica di materiale plastico, parlava un italiano corretto e conosceva le buone maniere.
Mi capitò poche volte di farle visita nella sua abitazione.
Entrato nell'androne semibuio, dove gli inquilini tenevano le biciclette e gli ombrelli, salivo al primo piano. Lina si presentava con il sorriso sulle labbra. La porta d’ingresso immetteva direttamente in un’ampia stanza, che faceva da soggiorno, pranzo e cucina. L’aspetto era un po' decadente, a dire il vero. Il pavimento, consumato, era come quello delle case di campagna, di mattoni disposti a lisca di pesce, che lei si sforzava di tenere ben lucidi con la cera rossa. Le pareti erano stinte, e annerite in prossimità della stufa e dei fornelli. Era proprio su quei fornelli che lei preparava il croccante una volta all'anno, non ricordo in quale attesissima occasione, e cuoceva anche le castagne da offrirci.
Lina mi conduceva per prima cosa dalla madre per salutarla. Pia aveva un'ottantina d'anni. Era una donna robusta e curva, dalla pelle bianca come il latte e raggrinzita. Vestiva completamente di nero, con un fazzoletto legato alla nuca e uno scialle. Si girava verso di me con la lentezza di una tartaruga e mi fissava con i suoi piccoli occhi neri. Sorrideva più con il bagliore degli occhi che con le labbra, che restavano chiuse a salvadanaio. La sua voce era quasi impercettibile, come un soffio. Pia era quasi sempre seduta nella sua cadrega di vimini e stringeva, tra le dita contorte, un rosario, o un vecchio libro di preghiere, o l'uncinetto.
Un giorno le udii parlare di Padre Pio: presumo che fossero entrambe figlie spirituali del padre.
Alle pareti non vi erano che poche immagini sacre e un ritratto del marito di Pia.
Sarebbe lungo elencare le opere buone di Lina. Molte di queste erano nascoste, come raccomanda il Vangelo: "Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra". Lina aiutava alcune famiglie bisognose e consigliava le persone dubbiose. Nel correggere il prossimo non temeva il giudizio altrui, ma si preoccupava che le sue parole rispecchiassero il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa.
Le opere buone conosciute erano soprattutto a carattere missionario. Teneva rapporti epistolari con diversi missionari, e li aiutava a distanza. Spesso, all’oratorio, ci parlava delle loro fatiche apostoliche.
Organizzava la mostra-vendita missionaria annuale, per sostenere le missioni saveriane. La mostra consisteva in un’esposizione di oggetti etnici dell'Africa e dell'Asia che Lina illustrava con dovizia di particolari ai visitatori. La mostra era piena di curiosità ed era un'attrazione molto attesa.
Ricordo come Lina si sperticasse nelle lodi di una pomata, che lei definiva miracolosa, per lenire i dolori reumatici. Sulla scatola di latta campeggiava una tigre e la scritta "Tiger". La tigre si aggirava con passo felpato in una giungla, volgendo lo sguardo famelico tutt’attorno. La pomata veniva prodotta in India. “Doveva essere veramente aggressiva!” Pensavo. Avevo letto qualcosa di Salgari all'epoca e sapevo bene che gli indiani dell'India non avevano problemi con le lame, abituati com'erano agli spiacevoli imprevisti della giungla. Perciò c’era da crederci se anche la Lina assicurava l’infallibile efficacia del rimedio.
Le parole "artrite" e “reumatismo” erano tra le più ricorrenti sulla bocca delle donne anziane, e mi ero fatto l'idea che queste malattie rappresentassero alcuni tra i mali peggiori dell'umanità. Perciò parlai della pomata miracolosa con le donne di casa mia, pensando di comunicare loro un'autentica scoperta, nonché di adempiere un dovere umanitario, ma fui deluso quando una di loro, alzando le spalle e scuotendo la testa, disse: "agh vól èter!", ci vuol altro.
Oltre all’impegno per l’oratorio dei fanciulli e dei ragazzi di Azione Cattolica, e per la S. Vincenzo parrocchiale, Lina trovava il tempo anche per la diffusione della buona stampa, attività che mantenne fino agli anni ’70. Ogni domenica mattina, col bello e il cattivo tempo, vendeva i quotidiani e i settimanali cattolici all’ingresso della chiesa.
Ciò che sorprende è la modestia e l’assenza di protagonismo nel compiere tutte queste iniziative.
La rivoluzione pastorale arrivò soltanto nel 1971 nel mio paese, e portò nuovi metodi educativi e nuovi contenuti anche per la pastorale dei fanciulli e dei ragazzi; decretò la fine di tutta una serie di abitudini legate al passato e, perciò, ritenute superate, come la distinzione tra oratorio maschile e oratorio femminile, per fare un esempio. Lina continuò fino a settembre di quell’anno con il suo oratorio, poi si ritirò da tutte le attività, tranne quella della buona stampa. Certamente non si sentiva adeguata alla nuova pastorale e gli anni erano passati anche per lei. Quelle domeniche pomeriggio all’aria aperta, a tenere testa a bambini sempre più irrequieti, non potevano andare avanti a lungo. Erano cambiate anche le condizioni di vita delle famiglie, e quel tipo di servizio era sempre meno richiesto.
Negli anni successivi andai a visitarla due o tre volte, anche dopo la mia Ordinazione sacerdotale. Le mancava il rapporto con i bambini e i ragazzi per i quali aveva dedicato tutta la sua vita. Col tempo rimase anche completamente sola: era morta la mamma, poi la sorella, che viveva accanto a lei.
Ciò che, però, mi fece più impressione in quelle ultime visite fu una certa inquietudine, un travaglio interiore, che le conferiva un’aria di estraneità nei confronti di tutto ciò che la circondava. Faticava a riconoscere l’opera della Chiesa nei cambiamenti che stavano avvenendo sotto i suoi occhi. Da una parte non poteva e non voleva credere che la Chiesa si stesse sbagliando su tante cose. Dall’altra, facendo un esame di coscienza, si chiedeva quali colpe lei avesse commesso, dove avesse sbagliato, per trovarsi così spaesata nella Chiesa. Tante fatiche e tante rinunce erano, dunque, state vane? Come mai tutto il tesoro di insegnamenti che aveva appreso, ora veniva palesemente contraddetto? La stessa Azione Cattolica faceva l’occhiolino alla modernità e allo spirito del mondo, dal quale i Sommi Pontefici ci avevano messo in guardia. Non era ottimista, comunque, riguardo al futuro, nient’affatto. Ella stessa poteva già riscontrare le conseguenze negative del cambiamento, soprattutto nell’educazione della gioventù e nelle nuove famiglie.
Questo atteggiamento disilluso contrastava fortemente l’idea del “progresso perenne”, che veniva inculcata nei Seminari; perciò, fece breccia nella mia coscienza di seminarista e poi di giovane sacerdote, lasciandomi tracce di perplessità che non mi abbandonarono mai.
Tuttavia, non era neppure questa la sua preoccupazione principale: avvicinandosi l'incontro con Gesù, temeva di non avere compiuto abbastanza la sua volontà.
Con tutto questo, non veniva meno il suo abbandono e la sua fiducia in Gesù, Re e Signore della storia e sposo della Chiesa, al di là delle apparenze scoraggianti.
Si può proprio dire che l’ultimo tratto della sua vita fu caratterizzato da un inasprimento delle prove: la solitudine, l’incomprensione, lo smarrimento. Il Signore la preparava così all'incontro con Sé.