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roncagliaenrico58

LA VESTE

Per tutto il periodo della mia infanzia, chi avesse usato l’espressione “sacerdote in talare”, avrebbe detto una banalità: in Italia e nelle nazioni a prevalenza cattolica, i sacerdoti vestivano tutti allo stesso modo, e la talare era la loro uniforme. Non proprio come quella dei medici o dei carabinieri: i preti, infatti, non la toglievano mai, se non per dormire e lavarsi.

Per questo motivo, rimasi sorpreso quando, sul finire degli anni ’60, vidi l’arciprete don Baraldi in tuta da lavoro, tra i manovali. Ricordo che mi fermai a guardarlo a bocca aperta. Ero talmente abituato a vederlo in abiti ecclesiastici, che la mente non era in grado di separare la persona dalla divisa. L’episodio, tuttavia, rimase circoscritto nell’ambito di quell’opera benemerita che fu la ricostruzione dell’asilo.

Nello stesso periodo, si cominciò a sentir parlare di preti in borghese. Il commento più ricorrente nell’ambiente in cui vivevo, era: “A’n gh’è piò religiòn” (non c’è più religione). Altri dicevano: “S’a turnéssa al mänd i vèc’ d’una vólta…!” (Se tornassero in vita i vecchi di una volta…!), e simili. La mia prozia, invece, era solita ripetere: “Mille, e non più mille!” E con questa lapide marmorea ogni altra considerazione sarebbe stata superflua e l’argomento era da considerarsi chiuso.

Un giorno, ad una di queste conversazioni era presente la Maria Incerti (di cui ho parlato nell’articolo “Massime eterne”). Era tutta intenta al centrino di pizzo, assai complicato, che usciva candido dalle sue dita laboriose, con la precisione di una tela di ragno. Parlavamo di preti in borghese e la zia aveva appena pronunciato la frase fatidica. Maria, all’aparenza estraniata nella sua creazione, posò a un tratto il lavoro e affermò che in realtà non vi trovava nulla di strano. Seguì un attimo di silenzio.

“Eh… A n’ho vésst…” (Eh… Ne ho visti…) riprese.

Al che, domandai dove li avesse visti.

“A Ventimiglia… quando ero a servizio dagli Aggazzotti. Ogni anno andavo con loro in villeggiatura. C’erano dei preti, credo che fossero inglesi, mi pare, vestiti in giacca e pantaloni neri. Anche la camicia era nera, con il colletto bianco, però. Sè sè, a v’al garantés me! E pò, vli’v c’a v’al déga? I stèven propria bèn, vistì acsè.” (Sì,sì. Ve lo garantisco io! E poi, volete che velo dica? Stavano proprio bene vestiti così).

Se da bambino un prete in borghese poteva sembrare una stranezza nordica, non passarono che un paio d’anni e la moda dilagò, come un fiume, anche da noi. Si chiamava clergyman il vestito che Maria aveva descritto con un po’ di anticipo, e che ora era balzato agli onori della cronaca. Ricordo che, a sostegno dell’opportunità del nuovo abbigliamento, veniva spesso agitato il caso tragico di quel benedettino, il cui abito rimase incastrato nella portiera di un tram a Roma. Il religioso venne trascinato per diversi metri e morì a causa delle lesioni riportate. Persino la bicicletta era diventata improvvisamente pericolosa: l’orlo della tonaca poteva infilarsi tra i raggi. E la lambretta…? Ve l’immaginate una veste svolazzante nel traffico cittadino? La macchina, poi, non ne parliamo: il caso che la talare andasse a intrappolarsi con il cambio o tra i pedali poteva rivelarsi fatale. Insomma, i tempi erano cambiati, le persone si muovevano più di prima, e si muovevano in fretta; anche i preti avrebbero dovuto aggiornarsi. Infatti, il clergyman in un primo tempo venne concesso per le esigenze dei sacerdoti che dovevano viaggiare.

Nella realtà, però, non fu il clergyman vero e proprio, bensì la sua versione proletaria, ad imporsi, e anche ben oltre la necessità di viaggiare. Così, ci dovemmo abituare ai preti in jeans, maglione e camicia, dalle colorazioni sempre più distanti dal nero: nulla, insomma, della sobria eleganza degli epigoni inglesi. La veste talare divenne sempre più esclusiva dei sacerdoti di una certa età.

Anche l’abbigliamento liturgico cambiò. Un poncho, prodotto in serie e, pure, lavabile, a cui avevano dato il nome di casula, sostituì le pianete lavorate a mano e riccamente decorate. Ogni cosa, dall’architettura alle suppellettili, dai paramenti agli abiti ordinari, tutto assumeva un aspetto povero e, direi quasi, primitivo. Dopo anni di cancellazione del passato e di livellamento al minimo, ci eravamo assuefatti. Noi ragazzi non avevamo alcun passato da rimpiangere; i giovani s’illudevano che le novità rappresentassero il futuro che veniva loro incontro; gli adulti dovevano adattarsi e gli anziani rassegnarsi.

Senonché, accadde qualcosa di straordinario che, almeno per quanto mi riguarda, venne a disturbare l’accettazione passiva delle nuove mode ecclesiali. Ero già alunno delle scuole medie e, una domenica pomeriggio, noi ragazzi fummo convocati dalla signorina Lina (di cui ho parlato nell’articolo “La Lina”) sul sagrato della chiesa, per assistere ad un avvenimento importante: don Celso Ligabue, ordinato alcuni giorni prima nella diocesi di Bologna, era atteso per la celebrazione di una delle sue prime Ss. Messe. Faceva molto caldo e il novello sacerdote non arrivava. Alcuni ragazzi, stanchi di aspettare sotto il sole, si erano allontanati per consumare un ghiacciolo o bere una gassosa al bar Centrale. Lina, però, ci invitava ad avere pazienza ed aspettare, perché ne sarebbe valsa la pena. Io non capivo che importanza potesse avere stare lì ad aspettare un sacerdote sconosciuto, solo per poterlo salutare. Alla fine, dall’angolo dei giardini, dove c’è l’edicola, vedemmo sbucare, poi avvicinarsi, e attraversare tutto il piazzale, un corteo di chierici in cotta e talare; dovevano essere alunni del Seminario di Bologna e compagni del novello sacerdote. Incedevano in fila ordinata a due a due con le mani giunte. Al centro, sotto un baldacchino, don Celso vestito per la Messa e con i guanti bianchi, avanzava solenne. Non avevo mai visto paramenti così belli, tutti di foggia antica. Avvolti nella luce abbacinante del meriggio, sfilarono davanti a me come esseri provenienti da un altro pianeta, poi scomparvero subito dopo nella penombra della chiesa. Questa fugace apparizione rimase impressa nella mia mente, per comparire a tratti nei momenti più impensati del mio cammino sacerdotale. A volte la percepivo come un canto del cigno, il bagliore che precede la fine di una lampadina, l’addio solenne di un mondo destinato a scomparire. Altre volte, invece, come un seme destinato alla sepoltura, morto ai nostri sguardi, in realtà solo in attesa.

 

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