A Suor Lucia Ardenghi, del convento delle salesiane, le madri superiore affidavano sempre l’insegnamento del catechismo nelle classi maschili. Alta quanto i fanciulli di quinta, dalla voce squillante, poteva parlare ore senza stancarsi. Il suo metodo consisteva nel raccontare episodi edificanti. Suor Lucia accompagnava la narrazione con gesti ed espressioni del viso, per renderli più interessanti, sicché noi eravamo tutt’orecchi, ma anche tutt’occhi. Nessuno dei suoi alunni dimenticherà l’impronta a fuoco, lasciata dalla suora defunta, che chiedeva suffragi, per citare uno dei tanti esempi. Ci sembrava di essere lì, sulla scena, esterrefatti al materializzarsi della sagoma bruciacchiata di una mano, come fosse l’impronta di un ferro da stiro.
Un giorno, ci raccontò la vicenda di un ragazzo che si sentiva chiamato da Dio al Sacerdozio. C’era solo un inconveniente, però: i suoi genitori erano contrari. Quel ragazzo era talmente determinato ad eseguire le ispirazioni del Cielo, che trovò la forza di disobbedire, arrecando loro un grande dispiacere. Tuttavia, fece la volontà di Dio e divenne un buon sacerdote. Mentre ascoltavo quelle parole, avvertii una specie di lacerazione nelle profondità del mio essere. Lì per lì chiusi gli occhi e deglutii; non volevo pensare ad una possibilità del genere.
Diversi anni più tardi – frequentavo già le scuole superiori – mi sembrava di percepire quella cosa che può accadere ad un cattolico maschio e che chiamano vocazione al sacerdozio. Era cresciuta come una larva dentro di me, ma ora pretendeva tutte le mie attenzioni e, come se non bastasse, insisteva per manifestarsi all’esterno ed assumere una forma concreta. Mi confidavo con il mio confessore e con nessun altro, neppure con i miei genitori. Non avevo idea di come quella cosa si sarebbe evoluta nel tempo e, comunque, occorreva molta prudenza e attento discernimento.
Una sera, in piazza De Gasperi, il sole tramontava su una tiepida giornata primaverile, ed io, seduto su una panchina, aspettavo che arrivasse l’ora della telefonata. La cabina si trovava a pochi passi da me. Avevo in tasca un gettone; lo stringevo forte tra le dita. Il numero, a forza di ripeterlo, lo sapevo a memoria. Mi guardavo attorno - due… uno… sette… uno… tre… zero…. - casomai passasse qualche conoscente e, magari, volesse sapere che cosa facessi a quell’ora da quelle parti. Dovevo agire con cautela: non ero stato fortunato nelle due precedenti scappatelle. Nella prima, a quattordici anni, mi ero trovato coinvolto in un corteo studentesco contro Pinochet, con tanto di slogan inneggianti alla rivoluzione, bandiere rosse e raccolta fondi per la resistenza armata. Venni notato da mio cognato, mentre si recava al lavoro. Ne seguì una storica ramanzina da parte della famiglia riunita, e non fu affatto piacevole venire sottoposto alla domanda di rito: “cosa facevi il giorno tal dei tali alle 9,00 in via Ciro Menotti?” e dover ammettere ciò che già era risaputo da tutti. Nella seconda, anziché prendere il treno per Sassuolo, prendemmo la direzione opposta, e trascorremmo la mattinata al Bar dell’Università a Modena. Ebbene - impossibile da credere -: una zia che abitava a Cognento e che non si muoveva mai da casa, quel giorno si trovava in via dell’Università e decideva di prendere un caffè nel medesimo bar.
Nonostante queste esperienze, che mi suggerivano di non tentare oltre la sorte; perché, come dice il proverbio, non c’è due senza tre, ero sicuro che, se fosse stata la volontà di Dio, questa volta non avrei incontrato ostacoli. Intanto si avvicinava l’ora indicatami dal portinaio del Seminario: le 20,30. Avrei potuto anche trovare la linea occupata; tutto poteva accadere, in realtà. Attesi che l’orologio del Campanone battesse la mezz’ora. Dopo di che, respirai a fondo - due… uno… sette… uno… tre… zero… - ed entrai nella cabina. Le porte si richiusero da sé, con una leggera spinta verso l’interno. Alzai la cornetta. Il gettone, che avevo tenuto saldamente tra le dita, cadde nell’apparecchio con un rantolo ripetuto. L’indice si mise a trascinare, una dopo l’altra, le cifre memorizzate: due… uno… sette… uno… tre… zero…. e ogni volta la rotella tornava indietro come il respiro affannoso di un agonizzante.
La linea suonava libera. Dall’altra parte del filo giunse puntuale la voce del Rettore. Mi aspettava. La conversazione fu breve e cordiale. Fissammo un appuntamento.
Arrivò il giorno stabilito. Dopo mezz’ora di corriera scesi al Gallo, e di lì, percorrendo a piedi Calle di Luca, la macchia rossastra del Seminario s’estendeva di fronte a me in tutta la sua lunghezza. Il numero centoquarantanove di Corso Canalchiaro corrisponde all’ingresso principale del “Seminario Metropolitano card. G. Morone”, come recita la lapide a fianco dell’ingresso. Accompagnato dal portinaio, attraversammo un chiostro cinquecentesco con quattro magnolie imponenti, salimmo lo scalone monumentale e percorremmo enormi corridoi. Le nostre voci, in quegli ampi spazi risuonavano come in una caverna. Il Rettore, al termine del colloquio, mi propose di entrare in autunno. Già nel mese di luglio avrei potuto partecipare al campo estivo con i seminaristi. Io ero felice: un mondo si schiudeva dinnanzi a me.
Ora, non rimaneva che affrontare i miei genitori. Con una certa trepidazione, parlai prima alla mamma, la quale, dopo una breve pausa, disse che lo aveva intuito e che comunque non aveva nulla in contrario, anzi ne era felice. Anche il babbo si mostrò favorevole; si raccomandò soltanto di pensarci bene prima di compiere la scelta definitiva. “La vita del prete – disse – non è facile”. Ero stupefatto: tutto era filato liscio come l’olio. La strada era libera. Passai la notte sognando ad occhi aperti quello che sarebbe accaduto nella mia vita di lì a poco.
Il mattino seguente, a colazione, mia madre era di poche parole. Comprensibile, pensavo: dovevamo abituarci a convivere con quella novità che ora si era inserita nelle nostre relazioni, trasformandole in qualcosa di diverso; occorreva avere pazienza.
All’improvviso, si sedette di fronte a me e, guardandomi fisso, mi apostrofò: “Scòltem bén, fiól!” (Ascoltami bene, figlio!). L’inizio non faceva presagire nulla di allegro. “De’ só”. (Di’) – continuò – “S’pól savér s’a t’è gnu in mént? Percósa t’e fat tött ed nascóst, e po’ in un bèl mumènt, et vin fóra con la nuvitè che et ve in Seminàri in utóber? T’iv bèle cumbinè … E nuèter? Nuèter come du baiòch, a’s sam catè davànti al fat compiù. An’s fa brìsa acsè. Alóra, chi sàmia nuèter, secànd te? Stàmia chè a fer da stamp ed castagnàs?!” (Si può sapere cosa ti è venuto in mente? Perché hai fatto tutto di nascosto e poi, all’improvviso, esci fuori con la novità che entri in Seminario in ottobre? Avevi già combinato … E noi? Noi come due baiocchi, ci siamo trovati davanti al fatto compiuto. Non si fa così. Allora, chi siamo noi, secondo te? Stiamo qui a servire da stampi per il castagnaccio?!
In seguito, nel corso degli anni, quando la mamma parlava di me con le amiche, soleva dire: “Ah, lui? Lui è quello delle sorprese”.
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