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IL RITORNO DEGLI DEI (2°)

roncagliaenrico58

Aggiornamento: 28 nov 2023


Ci sembrava di avere il mondo nelle mani: tutti potevamo studiare, divertirci, avere a diciotto anni la nostra automobile personale. Tutti, terminati gli studi, potevamo attenderci un impiego corrispondente alla nostra formazione. I salari erano in aumento e c'erano soldi anche per i viaggi e le vacanze.

I più anziani che continuavano a consumarsi nelle fatiche quotidiane non potevano capire. Essi stavano tramontando insieme al loro mondo; non potevamo imparare più nulla da loro. Non era colpa di nessuno: la corsa del mondo era in progressiva accelerazione. Le precedenti generazioni non avrebbero potuto raggiungerci mai.

A premere sul pedale dell'acceleratore ci pensò una nuova generazione di sacerdoti, giovani, formati alle idee del Concilio, intelligenti, brillanti, capaci di leadership (parola che fece il suo ingresso proprio allora nel lessico ecclesiastico), preparati al dialogo, comunicativi. Furono proprio questi sacerdoti ad attrarci nel vortice della dea, con la velocità stessa degli eventi ecclesiali e civili in corso di accadimento. Prima di allora eravamo come pietre ai margini di una strada, sulla quale sfrecciavano bolidi senza senso. Chi meglio di loro stava vivendo il presente?! Informazione puntuale e precisa, lettura degli eventi alla luce del Concilio, progettazione, azione. Questo era il metodo, da seguire, però con rapidità, non sia mai che ci si fermi a pensare, con il rischio di rimanere nelle retrovie. Restare indietro, appunto, era ritenuto la massima condanna. Nessuno di noi avrebbe tollerato di ridursi, per un processo involutivo, alla condizione delle generazioni precedenti. Tutti noi volevamo far parte del futuro che avanzava, anzi che era già presente.

Il futuro balenava ovunque: nelle automobili dai colori fiammanti, nei quarantacinque giri con i loro ritmi accattivanti. Era nei film, nelle canzoni, nella moda, nella televisione, che si imponeva sempre più come l’unica autorità certificata. Il futuro era dipinto negli sguardi sognanti dei giovani, nella loro incosciente allegria, nella loro passione per la velocità, nel loro disprezzo per le regole e le formalità, nel loro desiderio di nuove esperienze. A pensarci bene, e con il senno del poi, come sempre del resto, il futuro non esisteva propriamente. Una serie di fotogrammi proiettati nelle nostre menti, formanti un unico grande miraggio in movimento, questo era in realtà il futuro. Gradevole quanto si vuole, ma... pur sempre miraggio.

L'impostazione pastorale dei nuovi parroci differiva talmente da quella dei loro predecessori, da giustificare l'abbandono, una volta preso possesso della parrocchia, di tutta una serie di attività catechistiche, caritative e liturgiche che avevano caratterizzato la pastorale cattolica degli ultimi secoli. La damnatio memoriae si estendeva persino ai collaboratori del predecessore (catechiste storiche, dame della S. Vincenzo, confratelli delle diverse Confraternite, responsabili dei vari settori di Azione Cattolica, campanari, sagrestani, ecc.), detentori di competenze ritenute sorpassate. La loro colpa era quella di ostacolare la Rivoluzione. Erano loro i veri nemici da combattere. Avrebbero costituito un ostacolo non da poco, specialmente se si fossero mostrati riluttanti ad abbandonare le loro vecchie idee e i loro ruoli incartapecoriti nella polvere del tempo. Il nuovo vangelo della dea non tollerava persone ancorate al passato, "antiquate", come si diceva allora. Anzi per questo genere di persone venne coniato un neologismo: "matusa", abbreviazione di Matusalemme. Il mondo si divideva in due categorie: i matusa, ossia i morti viventi, e i vivi, cioè i figli della Rivoluzione. Tutti i matusa, inutili e dannosi quali erano, avrebbero dovuto togliersi di mezzo o con le buone o con le cattive.

Un giorno i nuovi parroci cominciarono a convocare ad uno ad uno i collaboratori dei predecessori. Educatamente si rivolsero a loro grosso modo in questi termini: La ringrazio di vero cuore per quanto ha fatto in questi anni per la Parrocchia, ma da ora la sua opera non serve più... sa, sono cambiati i tempi, e... Naturalmente, alla richiesta di motivazioni plausibili, i giovani sacerdoti abbozzarono un'arrampicata e chiusero rapidamente la conversazione. Immaginiamo quanta sofferenza dovette scendere nel cuore di quelle persone, anime che avevano sacrificato il meglio di sé (alcune di esse erano consacrate nel mondo, senza alcun riconoscimento ufficiale come, invece, avviene oggi). Avevano sofferto per la Chiesa, accompagnando l'impegno con una intensa vita di preghiera. Avevano avuto anche tante soddisfazioni e godevano chi più chi meno della stima della gente. Improvvisamente da persone stimate, erano diventate i paria, gli interdetti, i matusa appunto. Le loro deboli proteste, le intime sofferenze e le lacrime velate erano il giusto prezzo da pagare per la generazione promettente che avanzava.

I vescovi, dal canto loro, stavano puntando tutto sui giovani sacerdoti, formati alla scuola del Concilio.

La nuova pastorale trovava la sua ragion d’essere nella frase evangelica: "vino nuovo in otri nuovi", dove la novità, però, non era più la grazia di Cristo rispetto alle opere della Legge, ma... l'attimo fuggente.

Accompagnati definitivamente alla porta i vecchi collaboratori, gli ambienti parrocchiali cominciarono a brulicare di giovani e ragazze in jeans e maglietta, un'allegra combriccola, e la parrocchia cambiò d'aspetto.

Mentre la vecchia pastorale insisteva prevalentemente sulla vita liturgica (S. Messa, Vespro, ...), l'istituzione caratteristica della nuova pastorale divenne, invece, fin dal primo momento, la riunione. La riunione si presentava come lo strumento ideale per divulgare le nuove idee ed esercitare quel dialogo che avrebbe rivoluzionato la Chiesa. Le persone avevano un aspetto fiero e sostenuto durante le riunioni. Sembrava che sapessero il fatto loro. Ognuno era libero di esprimersi, anzi tutti dovevano esprimere il loro parere. Nessuna tolleranza per gli interventi contrari all’ideologia del progresso.

Dalle riunioni scaturivano decisioni da attuare necessariamente. Sembrava che l'obbiettivo fosse quello di riempire a tutti i costi il tempo di cose da fare. Gli iperattivi, infatti, coloro cioè che impiegavano meno tempo nel pronunciare una frase, coloro che intuivano il pensiero del "leader" prima ancora che venisse enunciato, erano i migliori. La nuova parola d'ordine era "velocità". Non c’era tempo da perdere. L’umanità aveva atteso millenni la nostra generazione. Tutto era quindi accelerato, persino - e non vi sembri strano - il modo di camminare. Tutto aveva preso ad orbitare sempre più vorticosamente intorno ai vari "leader", e sempre meno intorno a Dio. È vero che non mancavano liturgie e ritiri spirituali, ma il modo di esercitare il sacerdozio all'interno di quegli eventi non era più lo stesso dei precedenti 2.000 anni. Dio non era più il termine dell'adorazione. Il culto non trovava più gli spazi aperti e liberi di sempre, ma un ministro-intrattenitore e le sue performance. Nei seminari si studiavano nuovi metodi per la pastorale. L’ago della bilancia si stava spostando sempre più sulle strategie e sempre meno sui contenuti. Chi ancora cercava Dio veramente, da allora avrebbe dovuto farlo nonostante tutto.

Nella mia vita, benché fossi in parte entrato nel vortice degli adoratori della dea, non vi entrai mai completamente: il Signore nella sua bontà lo impediva. Mi sarei annientato, diventando come il vento: sempre in fuga dal passato, e sempre in tensione verso un futuro da interpretare e, addirittura, anticipare. Sarei rimasto estraneo al presente, che è la sola realtà che deve preoccupare ("ad ogni giorno basta la sua pena")

Finalmente, giunse per me il giorno in cui compresi che dovevo abbandonare, una volta per tutte, quell'idolo spietato e illusorio, come Ulisse abbandonò l'isola di Circe, e orientarmi decisamente verso Colui che è il Signore della storia. Quel giorno fu per me come un'autentica liberazione. Mi sentii come chi depone un fardello, e si volge a considerare le fatiche di un penoso cammino.

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