Quando le campane funzionavano solo con la forza delle braccia, il campanaro era indispensabile e tutte le parrocchie ne avevano uno. Pinelli si arrampicava sulle ripide scalette fino alla cella campanaria con il bello e il cattivo tempo. Dal punto più alto del paese controllava la piazza sottostante e, guardandosi attorno, distingueva le vie, le case e i poderi. Vedeva la moderna torre dell’acquedotto, le ciminiere della fornace e, in lontananza, la bianca Ghirlandina. Se volgeva lo sguardo a sud, ecco le colline con il Santuario di Fiorano, perfettamente riconoscibile dalla cupola. All’estremo orizzonte, in certe giornate limpide, poteva persino scorgere, appena accennati, i rilievi delle Prealpi da una parte, e dall’altra, molto più distintamente, quelli del crinale appenninico. Nelle giornate invernali le cime innevate segnavano il limite tra il cielo e la terra.
Negli anni ’60, Pinelli aveva circa una quarantina d’anni. Aveva i capelli neri, lucidi di brillantina, con il ciuffo all’indietro e un paio di baffetti. Gli zigomi sporgenti erano lievemente arrossati. Sempre pronto al sorriso, ma anche ad esprimere il suo punto di vista e a difenderlo se necessario.
In quegli anni rappresentava la memoria vivente della parrocchia, soprattutto per quanto concerne il periodo bellico. Il paese era stato pesantemente bombardato tra il ’44 e il ’45. Pinelli aveva assistito al recupero delle salme tra le macerie, e ai cortei funebri con lunghe file di feretri. Terrore, rabbia e dolore: non dimenticò mai la vista che gli si presentò dinanzi quando, raggiunta la cella campanaria, in un solo colpo d’occhio, si rese conto della vastità della distruzione.
Tutte le chiese del paese erano state danneggiate. Nel ‘45, a guerra ultimata, il parroco si diede subito da fare per raccogliere le somme necessarie alla ricostruzione e, a metà degli anni ’50, i lavori erano ultimati. Pinelli, con l’entusiasmo della gioventù e della fede, si sentiva pienamente coinvolto in questo slancio di ripresa. Le ferite della guerra, se avevano prostrato il morale di tante persone, in altre avevano prodotto una reazione contraria. Il nostro apparteneva a questa seconda categoria. Aveva visto la morte, la miseria, il trovarsi senza casa e senza risorse, la paura di coricarsi la sera e di non risvegliarsi il mattino dopo. Di contro aveva conosciuto anche il lavoro instancabile dei soccorritori e dei ricostruttori, la generosità e il sacrificio per il bene comune. Conosceva il prezzo del ritorno alla normalità. Niente era caduto dal cielo, tranne quei pochi viveri lanciati dagli alleati, e che peraltro erano finiti troppo presto. Penso che non si possa avere un’idea di questo uomo fermo nelle sue convinzioni e pienamente compreso nel suo ruolo, senza considerare l’esperienza della guerra e dell’immediato dopoguerra.
Un cristiano così, come avrebbe retto all’urto con l’ideologia conciliarista quando, vent’anni dopo, la rivoluzione penetrò nella Chiesa e cominciò a trasformarla dall’interno?
Innanzi tutto, il nostro campanaro fu una delle prime vittime dello sviluppo tecnologico. Nel 1971 le campane vennero elettrificate: di punto in bianco non c'era più bisogno di lui. Promoveatur ut amoveatur? No, non ci fu nessuna promozione, ma solo rimozione. Segno di una certa incompatibilità tra il vecchio e il nuovo assetto parrocchiale, e Pinelli apparteneva al vecchio. L’elettrificazione delle campane evidentemente fu solo l’occasione. Un grande cambiamento si stava verificando, una linea di confine era stata tracciata, oltrepassata la quale le collaborazioni non potevano più essere quelle di prima.
Da quel momento egli stette ad osservare, a distanza, dal fondo della chiesa, là dove gli uomini erano soliti assistere alla Messa stando in piedi, senza battere ciglio, incapace di rassegnarsi, come il mozzo che dalla scialuppa assiste al lento naufragio della nave.
Intorno al 1980, il parroco iniziò l’adeguamento della chiesa alle nuove norme della riforma liturgica. Pinelli venne in cerca di me, che in quegli anni ero seminarista. Mi supplicò di far desistere il parroco dal compiere un affronto alla fede dei nostri padri che avevano ricostruito quella chiesa con molti sacrifici. Lì avevano ripreso vita le speranze, il dolore aveva trovato conforto, i cuori induriti dall’odio avevano ritrovato la pace. La chiesa è la casa di Dio, dove Gesù abita sulla terra come in cielo nel SS. Sacramento. Che cosa c’era da modificare? Perché demolire gli altari, e le balaustre? La sua intima sofferenza si toccava con mano e il suo volto non fu più così sorridente come prima. Le strutture architettoniche, attraverso le quali la fede si era espressa nei secoli, venivano ora trasformate in qualcosa che era ancora di là da venire. Tutto sembrava assurdo e folle. Naturalmente io non avrei potuto influire per nulla sulle decisioni del parroco.
Ricordo che fra tutti i cambiamenti, l’eliminazione delle balaustre fu l’azione che destò più turbamento nella popolazione. Gli altari rivolti ad Deum, infatti, erano inutilizzati fin dal 1969. Restavano ormai soltanto le balaustre a testimoniare plasticamente il legame con la fede dei padri. La balaustra era il luogo dove veniva distribuita e ricevuta la S. Comunione, per questo soprattutto era percepita come luogo sacro per eccellenza, secondo soltanto all’altare e in stretta relazione con esso. Senza saperlo spiegare con argomentazioni teologiche, i fedeli avevano capito che per sopravvivere, il culto aveva bisogno di spazi inaccessibili, o meglio riservati ai ministri ordinati. L’eliminazione delle balaustre riduceva tutti allo stesso livello: il culto veniva privato del suo slancio naturale e ridotto a mera cerimonia. I fedeli, nella loro semplicità, avevano colto il dramma racchiuso in questi provvedimenti.
Il povero Pinelli con il suo disagio interiore, non rappresentava che la punta di un iceberg. Nessuno, a quell'epoca osava contestare apertamente le decisioni del parroco. Forse qualcuno avrà fatto ricorso al vescovo, ma ormai erano i vescovi stessi ad incoraggiare questo tipo di riforme. Anzi, alle soglie degli anni '80 si era già in forte ritardo, rispetto all’accelerazione della prima fase rivoluzionaria.
Da seminarista, ormai prossimo all'Ordinazione, non potevo che condividere le idee del parroco, le medesime, tra l’altro, che mi venivano inculcate in seminario e nello studio teologico. Non conoscevo alternative. D’altronde la sofferenza di Pinelli era anch’essa una realtà, e come tale doveva avere le sue motivazioni. Non bastava liquidarla, declassandola a semplice atteggiamento nostalgico e reazionario.
Mi chiedevo come avrei potuto diventare sacerdote in quel clima di religiosità progressista e umanitaria, a cui avvertivo di non appartenere appieno. Perciò ero intimamente lacerato tra l'adesione al programma conciliare che mi veniva presentato come un destino ineluttabile e la sofferenza di Pinelli che stava trovando un'eco importante anche dentro di me.
Per la mia ordinazione distribuii parecchi inviti. Erano presenti molti sacerdoti tra i progressisti, ma anche alcuni legati alla tradizione. Anzi, ci tenevo particolarmente che questi fossero presenti: segno che ritenevo non trascurabile la loro posizione.
Tra i laici invitati ci fu anche il campanaro Pinelli. Ci salutammo con gioia, sia per la felice circostanza, sia perché rievocammo una nostra comune conoscenza, il mio prozio e suo collega sagrestano Enrico Casalgrandi, dal quale ho ereditato il nome.
Questa fu una delle ultime volte che lo vidi.