Per arrivare all’allestimento della cappella tridentina dei SS. Cuori, il percorso non è stato breve. È durato quarant’anni e non sto scherzando, un tempo biblico.
Non so se considerarlo un presagio, ma l’altare sul quale celebrai la mia prima Messa la domenica 26 settembre 1982 alle ore 11, era un altare finto. Mi spiego meglio. Erano in corso dei lavori di adattamento dell’area presbiterale; l’altare tridentino era stato da poco smantellato, ed era stato collocato un modello in compensato del nuovo altare. Insomma: non c’era più l’altare antico, ma neppure quello moderno vero e proprio. Ripensandoci potrebbe essere un presagio del mio esodo personale dall’altare perduto all’altare ritrovato.
La “Messa nuova”, quella che ho celebrato dal 1982 al 2018, richiede che il celebrante svolga la funzione di presidente dell’assemblea. Nel nuovo rito, l’ars celebrandi consiste soprattutto nel sapere coinvolgere l’assemblea, nell’avere una buona capacità comunicativa e interagire con gli altri “attori” principali (Diaconi, ministri, lettori, ecc…). Il celebrante dovrebbe essere il sapiente regista e il primo attore di tutta l’azione liturgica.
E l’aspetto sacrificale? Qual era il posto riservato alla dimensione verticale per cui il sacerdote procede oltre il luogo del raduno e sale da solo verso Dio per intrattenersi con Lui e offrirgli il Sacrificio a nome di tutti? Ebbene, era precisamente questo che io sentivo preponderante nel mio cuore. Di fatto, però, ogni volta che mi avvicinavo all’altare, mi trovavo circondato dagli sguardi di tutti, mentre io stesso guardavo i presenti per verificare gli effetti della mia “regia”. Mi sentivo come lacerato da un insolvibile dilemma: presiedere l’assemblea o rivolgermi a Dio? Sembravano due realtà inconciliabili. Nessuno però mi aiutava a trovare il bandolo della matassa.
Ho detto più volte che dalla mia formazione non ho tratto un ideale di sacerdozio chiaro e univoco. Prevaleva tuttavia, anche se in modo confuso, un’idea di sacerdozio desunta dalle organizzazioni e amministrazioni civili e persino commerciali, molto vicina alla figura del manager. Come il manager per l’azienda, così il parroco per la parrocchia. Non per nulla si sono visti corsi di aggiornamento per sacerdoti tenuti da esperti in pubbliche relazioni. Sembrava che il successo nella pastorale dipendesse dall’acquisizione di certe tecniche che nelle aziende stavano portando buoni frutti.
L’ondata di ottimismo, o meglio, di delirio ottimistico, con cui queste tecniche venivano incoraggiate, si infrangeva inevitabilmente contro la realtà dell’utente medio delle nostre iniziative, nonché con i parroci presso i quali venivamo sguinzagliati a portare il verbo dell’innovazione, oltre che con le nostre peculiari caratteristiche.
Per fare una sintesi della situazione, il sacerdote uscito dal seminario prima o poi sarebbe stato costretto ad aprire gli occhi su due grossi problemi a cui non aveva pensato e del tutto destabilizzanti. Il primo era la mancanza di comunicazione con i superiori. Essi comunicavano sì, ma in modo univoco, ripetendo i contenuti del protocollo da realizzare senza se e senza ma. Facevano occhi brutti a chi non si adeguava e larghi sorrisi nel caso contrario. Non ho conosciuto altre modalità, come se fossero stati programmati in serie e con queste scarse funzioni (on, off). La seconda scoperta non era migliore della prima: tutte le teorie e le tecniche apprese nelle sedute di propaganda pastorale si rivelavano, all’atto dell’applicazione, una complicazione e una perdita di tempo, se non addirittura fallimentari, spesso fuorvianti. È come se un esercito, male addestrato e pieno di entusiasmo, venisse inviato sul campo di battaglia con la ricetrasmittente fuori uso e tutte le armi spuntate.
Il brusco risveglio produsse nei giovani sacerdoti diverse conseguenze: senso di frustrazione e confusione, certamente. Alcuni caddero nella trappola dei sensi di colpa, altri presero una salutare distanza da tutti i protocolli e cominciarono a cercare soluzioni personalizzate, altri ancora percorsero tutte queste fasi approdando agli esiti più diversi. Oppure si adeguarono senza porsi troppi problemi.
Uscire dal circolo vizioso protocollo-illusione-frustrazione e crearsi una propria dimensione anche solo per custodire il proprio sacerdozio e onorarlo agli occhi di Dio, significava scegliere la strada della emarginazione perpetua ed essere additati da tutti con il marchio infamante di “imboscato”.
Era l’8 settembre della Chiesa.
Dopo l’emorragia del periodo conciliare, i sacerdoti rimasti a presidiare le strutture cattoliche, venivano ora ingaggiati nei ranghi di una rivoluzione che si sarebbe presto ritorta contro di essi, lasciandoli di fatto sempre più isolati e in una posizione servile. Dovevano portare la democrazia all’interno della Chiesa, si sono invece trovati privi di libertà di azione e con il loro carisma mortificato e calpestato. Stretti tra il martello dei protocolli e l’incudine di un laicato indottrinato e desideroso di affermazione, si trovano ora declassati ad un ruolo esclusivamente funzionale. Ricattati dall’assegno mensile e dal dovere dell’obbedienza, aspettano solo di assistere alla svendita totale del patrimonio spirituale, dottrinale, morale e materiale di quello che era la Chiesa Cattolica. Ironia della sorte: furono ingaggiati proprio loro, i sacerdoti di Cristo con la loro alta dignità che deriva dal Sacramento dell’Ordine, per diventare niente meno che i curatori della Grande Liquidazione. Credo che non esista punizione peggiore. I più allineati e collaborativi, quelli che fin dall’inizio sono stati i portabandiera e gli araldi delle novità, hanno già ricevuto le loro ricompense con le cariche più elevate nella falsa chiesa. Questo era il disegno e questo è avvenuto.
Come uscii dalla palude, ve lo svelerò più avanti in questa stessa serie (“L’altare ritrovato”)
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